jeudi 16 novembre 2017

Après coup di Noël Mitrani: la recensione


Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione 

 

Di Michele Faggi

Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. 

Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. 

Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. 

Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. 

Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. 

Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. 

Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. 

Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. 

Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. 

Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. 

L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.



Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione

Di Michele Faggi

Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista.

Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione

Di Michele Faggi

Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.

Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html

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Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.

Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.

Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.

Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione

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Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione

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Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione

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