Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione
Di Michele Faggi
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro.
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro.
Fotografato da Bruno
Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di
validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una
scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale
tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle
regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative
slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha
dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è
interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla
contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità
negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare
perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e
della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e
complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto
nichilista.
Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione
fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da
un’osservazione limpida e onesta del vissuto.
Senza l’ausilio di musica, ad
eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude
il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e
Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola
figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda.
Un
incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence
Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile,
ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per
consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte
del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora
lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il
rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il
dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte
interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla
psicoterapia.
Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto,
vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide
lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla
costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla
ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che
questi sono in grado di assorbire.
Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti
è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una
dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie
emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas,
straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo
contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera.
Dopo il
fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime
giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento
delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi
ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après
le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come
IADC, “Induced After Death Communication”.
Senza entrare a gamba tesa nel
dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della
comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza,
gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle
riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e
utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il
paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri
negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il
movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta,
durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi
regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie
sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha
raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una
casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere.
Marc si sottopone
alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia
che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che
farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a
non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti
che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si
fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma
mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di
uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di
“sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in
accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso,
come attore del processo che sta vivendo.
L’incontro con la madre di Aurélie,
il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di
Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini
di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità
quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen
El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini
semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani,
raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o
da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un
disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di
spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività
solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.
Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione
Di Michele Faggi
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista.
Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html Après coup è il quarto lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre. Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società dell'informazione. La nostra recensione
Di Michele Faggi
Sin dal lungometraggio d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori. La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma assolutamente complementari tra loro. Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto nichilista. Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da un’osservazione limpida e onesta del vissuto. Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda. Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie (Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla psicoterapia. Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire. Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto con una performance che supera la dimensione della maschera. Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM, ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death Communication”. Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC, secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale, a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta, durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci interessa discutere. Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici, ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica, ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta vivendo. L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e isolazionista, tornando a toccarci.
Sin dal lungometraggio
d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël
Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e
precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro
titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e
libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione
strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore
Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori.
La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro
lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano
l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma
assolutamente complementari tra loro.
Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après
coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la
giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una
concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della
formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole
dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole
creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla
famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per
Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine
sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi
sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per
Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le
necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società
dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che
non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto
nichilista.
Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione
fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da
un’osservazione limpida e onesta del vissuto.
Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la
Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si
avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence
Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo
spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda.
Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie
(Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è
certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente
i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di
tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino
possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo
dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto
stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo
con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte
interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla
psicoterapia.
Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e
allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo
spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare
sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente
l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai
volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire.
Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene
messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica
impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una
realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario
attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto
con una performance che supera la dimensione della maschera.
Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani
non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati
al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta
con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM,
ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese
delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death
Communication”.
Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC,
secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale,
a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i
metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR
(Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a
fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante
la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi
con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il
movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta,
durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di
ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le
proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione
post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso
le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci
interessa discutere.
Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire
l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento
di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici,
ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna
spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che
caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né
si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica,
ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica
possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che
nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo
piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che
mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta
vivendo.
L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra
che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo
volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e
responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi
incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole
Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del
gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra
dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo
penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è
arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre
riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha
travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e
isolazionista, tornando a toccarci.
Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
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Sin dal lungometraggio
d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël
Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e
precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro
titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e
libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione
strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore
Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori.
La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro
lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano
l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma
assolutamente complementari tra loro.
Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après
coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la
giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una
concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della
formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole
dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole
creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla
famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per
Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine
sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi
sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per
Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le
necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società
dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che
non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto
nichilista.
Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione
fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da
un’osservazione limpida e onesta del vissuto.
Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la
Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si
avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence
Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo
spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda.
Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie
(Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è
certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente
i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di
tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino
possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo
dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto
stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo
con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte
interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla
psicoterapia.
Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e
allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo
spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare
sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente
l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai
volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire.
Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene
messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica
impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una
realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario
attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto
con una performance che supera la dimensione della maschera.
Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani
non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati
al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta
con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM,
ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese
delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death
Communication”.
Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC,
secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale,
a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i
metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR
(Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a
fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante
la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi
con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il
movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta,
durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di
ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le
proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione
post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso
le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci
interessa discutere.
Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire
l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento
di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici,
ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna
spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che
caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né
si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica,
ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica
possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che
nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo
piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che
mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta
vivendo.
L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra
che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo
volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e
responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi
incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole
Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del
gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra
dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo
penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è
arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre
riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha
travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e
isolazionista, tornando a toccarci.
Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
Sin dal lungometraggio
d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël
Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e
precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro
titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e
libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione
strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore
Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori.
La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro
lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano
l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma
assolutamente complementari tra loro.
Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après
coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la
giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una
concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della
formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole
dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole
creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla
famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per
Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine
sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi
sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per
Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le
necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società
dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che
non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto
nichilista.
Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione
fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da
un’osservazione limpida e onesta del vissuto.
Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la
Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si
avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence
Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo
spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda.
Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie
(Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è
certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente
i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di
tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino
possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo
dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto
stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo
con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte
interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla
psicoterapia.
Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e
allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo
spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare
sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente
l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai
volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire.
Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene
messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica
impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una
realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario
attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto
con una performance che supera la dimensione della maschera.
Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani
non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati
al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta
con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM,
ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese
delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death
Communication”.
Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC,
secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale,
a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i
metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR
(Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a
fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante
la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi
con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il
movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta,
durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di
ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le
proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione
post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso
le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci
interessa discutere.
Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire
l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento
di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici,
ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna
spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che
caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né
si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica,
ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica
possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che
nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo
piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che
mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta
vivendo.
L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra
che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo
volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e
responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi
incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole
Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del
gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra
dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo
penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è
arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre
riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha
travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e
isolazionista, tornando a toccarci.
Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
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Sin dal lungometraggio
d’esordio “Sur la trace d’Igor Rizzi“, il cinema del quebechiano Noël
Mitrani è “un affare di famiglia”. Ed è un aspetto che interessa e
precede i suoi stessi film. Da una parte la lenta gestazione (quattro
titoli in undici anni), frutto di un approccio fieramente autonomo e
libero gestito con passione quasi “familistica”, dall’altra la relazione
strettissima con i suoi collaboratori, a partire da quella con l’attore
Laurent Lucas, presente in tutti i suoi lavori.
La famiglia e il nucleo degli affetti attraversa tematicamente i quattro
lungometraggi del cineasta canadese, con modalità che affrontano
l’elaborazione di un trauma secondo coordinate diversissime, ma
assolutamente complementari tra loro.
Fotografato da Bruno Philip come il precedente “Le Militaire“, Après
coup coinvolge una serie di validissimi attori canadesi e la
giovanissima figlia di Mitrani, Natacha; una scelta che si lega ad una
concezione del cinema stesso come connettore ideale tra lo spazio della
formazione e quello della crescita personale. Lontano dalle regole
dell’industria, Mitrani non riesce a concepire i suoi film come isole
creative slegate dalla posizione centrale occupata per lui dalla
famiglia, e come ha dichiarato in una recente intervista pubblicata per
Cinefilic.com, non è interessato al cinema come strumento di indagine
sociale a partire dalla contemplazione di un modello descritto quasi
sempre per le sue qualità negative. La famiglia disfunzionale è per
Mitrani uno stereotipo da superare perché nutre sostanzialmente le
necessità narrative dei media, vecchi e nuovi e della società
dell’informazione, staccandosi da un percorso doloroso e complesso che
non deve necessariamente cedere all tentazioni di un racconto
nichilista.
Il suo è allora un cinema fortemente ancorato alla percezione
fenomenologica, il cui livello filosofico ed esistenziale emerge da
un’osservazione limpida e onesta del vissuto.
Senza l’ausilio di musica, ad eccezione di “No End“, la ballad “à la
Nick Drake” di Steven Emerson che chiude il film, “Après coup” si
avvicina alla famiglia di Marc (Laurent Lucas) e Florence (Laurence
Dauphinais) attraverso i giochi del padre con la piccola figlia e lo
spazio che il primo dedica alla fantasia della seconda.
Un incidente fortuito occorso davanti al giardino di Marc uccide Aurélie
(Florence Sirard) la compagna di giochi della bambina. Marc non è
certamente responsabile, ma la decisione di interrompere momentaneamente
i giochi delle due bimbe, per consentire alla piccola Aurélie di
tornare a casa dalla madre, apre le porte del peggiore destino
possibile. Il senso di colpa si insidia e divora lentamente l’animo
dell’uomo. Oltre ai sintomi più gravi della depressione è il rapporto
stesso con la dimensione sociale a perdere senso: il lavoro, il dialogo
con gli amici e la stessa famiglia vengono corrosi da questa morte
interiore senza che vi sia alcuna via d’uscita, se non ricorrere alla
psicoterapia.
Mitrani conferma, come dicevamo, il suo stile scabro e diretto, vicino e
allo stesso tempo lontanissimo da quel cinema francese che condivide lo
spazio d’osservazione con quello dei personaggi; invece di indugiare
sulla costruzione di un’estetica ingombrante, asciuga completamente
l’immagine alla ricerca di una flagranza il più possibile vicina ai
volti e ai riflessi che questi sono in grado di assorbire.
Il confronto di Marc con gli psicoterapeuti è paradigmatico e viene
messo in scena attraverso il contrasto tra una dimensione scientifica
impermeabile e un tentativo di adattare le proprie emozioni ad una
realtà che non risponde più. Il volto di Laurent Lucas, straordinario
attore spesso sul bordo di emozioni estreme, evidenzia questo contrasto
con una performance che supera la dimensione della maschera.
Dopo il fallimento della soluzione farmacologica, sulla quale Mitrani
non esprime giudizi di alcun tipo, pur sottolineandone gli scopi legati
al depotenziamento delle emozioni e alla loro sedazione, Marc accetta
con riluttanza di sottoporsi ad una prassi sperimentale, nota come CIAM,
ovvero “Communication Induite Après le Mort”, traduzione dall’inglese
delle ricerche di Allan Botkin note come IADC, “Induced After Death
Communication”.
Senza entrare a gamba tesa nel dibattito che collocherebbe la IADC,
secondo alcuni psicoterapeuti della comunità scientifica internazionale,
a metà tra scienza e pseudoscienza, gioverà ricordare sinteticamente i
metodi della terapia, desunti in parte dalle riprogrammazioni dell’EDR
(Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e utilizzati per lo più a
fronte di difficoltose elaborazioni di un trauma. Il paziente, durante
la seduta terapeutica, viene invitato a sostituire i pensieri negativi
con quelli positivi, affrontandoli direttamente e seguendo con il
movimento degli occhi un gesto ricorrente esperito dallo psicoterapeuta,
durante la prassi di liberazione. Lontanissimo da qualsiasi forma di
ipnosi regressiva, consentirebbe a chi se ne serve di riprogrammare le
proprie sensazioni fino a permettere una vera e propria connessione
post-mortem che ha raggiunto risultati sorprendenti, almeno attraverso
le testimonianze di una casistica lunga venti anni e sulla quale non ci
interessa discutere.
Marc si sottopone alla terapia e lentamente impara a sostituire
l’opprimente stato di angoscia che lo zavorra a terra con un sentimento
di riconciliazione. L’esperienza che farà lambisce confini metafisici,
ma allo stesso tempo Mitrani è ben attento a non offrire alcuna
spiegazione se non attraverso la prossimità ai sentimenti che
caratterizza il suo cinema. Non sceglie quindi una strada visionaria, né
si fa tentare dalla visualizzazione forzata della distorsione onirica,
ma mantenendosi nello spazio delle relazioni umane come unica
possibilità di uscita si dimostra interessato agli effetti, tanto che
nell’unica immagine di “sdoppiamento” gioca con il riflesso del primo
piano di Laurent Lucas, in accordo con la progressione terapeutica che
mette al centro il paziente stesso, come attore del processo che sta
vivendo.
L’incontro con la madre di Aurélie, il figlio che li spia dalla finestra
che si apre sul portico, il rapporto di Marc con la figlia, tra il suo
volto e quello dello quasi rovesciato in termini di attenzioni e
responsabilità nella fase più acuta della crisi, la frontalità quasi
incommensurabile tra il suo volto e quello del medico (un notevole
Mohsen El Gharbi) ed infine la felicità ritrovata nella dimensione del
gioco. Immagini semplici e a portata di mano in un certo senso, sembra
dirci Mitrani, raggiungibili senza passare dall’autolesionismo
penitenziale delle religioni o da un razionalismo estremo che si è
arreso alla repressione dei sintomi di un disagio più profondo; occorre
riprogrammare le nostre coscienze dall’ondata di spazzatura che ci ha
travolto in questi anni terribili di connettività solitaria e
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Après coup è il quarto
lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in
concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre.
Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello
di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società
dell'informazione. La nostra recensione
Leggi l'articolo completo: testo copiato da https://www.indie-eye.it/cinema/covercinema/apres-coup-di-noel-mitrani-la-recensione.html
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Après coup è il quarto
lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in
concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre.
Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello
di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società
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Après coup è il quarto
lungometraggio del quebechiano Noël Mitrani ed è stato presentato in
concorso al Festival du Nouveau Cinéma Montréal, lo scorso ottobre.
Cinema di sentimenti, vicino al vissuto, rifiuta strenuamente il modello
di famiglia disfunzionale, come stereotipo costruito dalla società
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